Le schede di iscrizione per il catechismo delle scuole elementari, medie e per il percorso di preparazione alla Cresima sono disponibili in forma cartacea in Cattedrale e online qui di seguito.

Come iscriversi:

1. Scarica le schede: Clicca sul pulsante qui sotto per accedere ai moduli di iscrizione.
2. Compila il modulo: Inserisci i dati richiesti con attenzione. È importante che tutte le informazioni siano corrette e complete.
3. Consegna l’iscrizione:
• Di persona: Puoi consegnare i moduli compilati presso la sacrestia della Cattedrale oppure imbucarli nella cassetta della posta in Via A. di Prampero, 6.
• Via mail: In alternativa, puoi inviare le schede compilate all’indirizzo info@cattedraleudine.it.

Clicca qui per scaricare le schede di iscrizione.

LETTERA DELL’ARCIVESCOVO

Carissimi fratelli e sorelle in Cristo,

il prossimo Lunedì 8 settembre, Festa della Natività della B.V. Maria, secondo una consolidata tradizione ci recheremo in pellegrinaggio al Santuario di Castelmonte in occasione della ricorrenza di quel pellegrinaggio diocesano che 50 anni fa il compianto arcivescovo Battisti promosse per ricordare le vittime del tragico terremoto del 6 maggio 1976 e per chiedere l’aiuto della Madone di Mont per la ricostruzione materiale, morale, spirituale del Friuli.

Nell’anno giubilare che Papa Francesco volle intitolare “Pellegrini di Speranza”, questo pellegrinaggio aiuterà a consolidare la fede in Gesù Cristo come nostro Salvatore, che abbiamo professato nelle scorse settimane insieme a tanti adolescenti, giovani e famiglie sulla tomba degli Apostoli a Roma.

Inoltre, questo pellegrinaggio sarà l’occasione per chiedere ancora una volta l’intercessione di Maria Santissima per la pace in tutte quelle regioni che sono duramente provate dalla insensatezza della violenza e della guerra. Non siamo stati creati per questo! Piuttosto siamo stati creati per godere dell’Amore di Dio e per essere segno e strumento di questo amore per i nostri fratelli. Maria, Madre di Cristo, unica nostra speranza, interceda presso il Padre perché i cuori degli uomini si convertano a pensieri, sentimenti e propositi di pace!

Infine, in questa bella circostanza che ci vedrà riuniti come “popolo di Dio” porgeremo il nostro grato e affettuoso saluto a Mons. Guido Genero che per 16 anni ha svolto con discrezione il servizio di Vicario Generale, e affideremo alla Madone di Mont l’inizio del ministero di Mons. Dino Bressan, sacerdote conosciuto per il suo zelo apostolico e per l’amore alla Chiesa, come nuovo Vicario Generale della nostra Diocesi. In attesa di incontrarvi lunedì 8 settembre p.v., vi saluto affettuosamente e vi ricordo nella preghiera insieme alle vostre famiglie.

+ Riccardo Lamba, Arcivescovo di Udine

Udine, 1° settembre 2025          

DICHIARAZIONE CONGIUNTA DEL PATRIARCATO GRECO ORTODOSSO DI GERUSALEMME

E DEL PATRIARCATO LATINO DI GERUSALEMME

Gerusalemme, 26 agosto 2025

“Sui sentieri della giustizia si trova la vita, la sua strada non va mai alla morte”
(Proverbi 12,28)
Qualche settimana fa, il governo israeliano ha annunciato la sua decisione di prendere il
pieno controllo della città di Gaza. Negli ultimi giorni, i media hanno ripetutamente riferito di
una massiccia mobilitazione militare e dei preparativi per un’imminente offensiva. Le stesse
notizie indicano che la popolazione della città di Gaza, dove vivono centinaia di migliaia di
civili – e dove si trova la nostra comunità cristiana – sarà evacuata e trasferita a sud della
Striscia. Al momento della presente dichiarazione, sono già stati emessi ordini di evacuazione
per diversi quartieri della città di Gaza. Continuano ad arrivare notizie di pesanti
bombardamenti. Si registrano ulteriori distruzioni e morti in una situazione già drammatica
prima dell’inizio dell’operazione. Sembra che l’annuncio del governo israeliano secondo cui
«si apriranno le porte dell’inferno» stia effettivamente assumendo contorni tragici.
L’esperienza delle passate campagne a Gaza, le intenzioni dichiarate dal governo israeliano
riguardo all’operazione in corso e le notizie che ci giungono dal terreno dimostrano che
l’operazione non è solo una minaccia, ma una realtà che è già in fase di attuazione.
Dallo scoppio della guerra, il complesso greco-ortodosso di San Porfirio e quello latino della
Sacra Famiglia sono stati un rifugio per centinaia di civili. Tra loro ci sono anziani, donne e
bambini. Nel complesso latino ospitiamo da molti anni persone con disabilità, assistite dalle
Suore Missionarie della Carità. Come gli altri abitanti della città di Gaza, anche i rifugiati che
vivono nella struttura dovranno decidere secondo coscienza cosa fare. Tra coloro che hanno
cercato riparo all’interno delle mura dei complessi, molti sono indeboliti e malnutriti a causa
delle difficoltà degli ultimi mesi. Lasciare Gaza City e cercare di fuggire verso sud
equivarrebbe a una condanna a morte. Per questo motivo, i sacerdoti e le suore hanno deciso
di rimanere e continuare a prendersi cura di tutti coloro che si troveranno nei due complessi.
Non sappiamo esattamente cosa accadrà sul posto, non solo per la nostra comunità, ma per
l’intera popolazione. Possiamo solo ripetere ciò che abbiamo già detto: non può esserci
futuro basato sulla prigionia, lo sfollamento dei palestinesi o la vendetta. Facciamo eco alle
parole pronunciate pochi giorni fa da Papa Leone XIV: «Tutti i popoli, anche i più piccoli e i più
deboli, devono essere rispettati dai potenti nella loro identità e nei loro diritti, in particolare il
diritto di vivere nelle proprie terre; e nessuno può costringerli a un esilio forzato» (Discorso al
gruppo di rifugiati delle Chagos, 23.8.2025).
Non è questa la giusta via. Non vi è alcuna ragione che giustifichi lo sfollamento deliberato e
forzato di civili.
È tempo di porre fine a questa spirale di violenza, di porre fine alla guerra e di dare priorità al
bene comune delle persone. C’è stata abbastanza devastazione, nei territori e nella vita delle
persone. Non vi è alcuna ragione che giustifichi tenere dei civili prigionieri o ostaggi in
condizioni drammatiche. È ora che le famiglie di tutte le parti in causa, che hanno sofferto a
lungo, possano avviare percorsi di guarigione.
Con uguale urgenza, facciamo appello alla comunità internazionale affinché agisca per porre
f
ine a questa guerra insensata e distruttiva, e affinché le persone scomparse e gli ostaggi
israeliani possano tornare a casa.
“Sui sentieri della giustizia si trova la vita, la sua strada non va mai alla morte” (Proverbi
12,28). Preghiamo affinché tutti i nostri cuori si convertano, per camminare sui sentieri della
giustizia e della vita, per Gaza e per tutta la Terra Santa.

“Da cuore a cuore”

«Finisce qui il nostro canto, ma non finisca mai la lode di Dio. Se non puoi lodarlo con la lingua, lodalo con la vita» (Sant’Agostino, nella conclusione del commento ai salmi)

Al termine della Messa, le ultime parole del sacerdote invitano a glorificare il Signore con la nostra vita. Queste parole ci invitano a ritornare alle attività della giornata, ma rinnovandone la vocazione: ciò che si è ascoltato, cantato, ricevuto, è chiamato a manifestarsi nella nostra vita. Anche qui, con questo foglietto, siamo giunti al termine delle pubblicazioni settimanali. Negli ultimi mesi abbiamo compiuto, per così dire, una piccola gita fuori porta guidati dal pensiero di Agostino; ogni tappa iniziava su una sua frase e noi, interrogandoci, la seguivamo fin dove ci portava. Si è visto come questo grande Santo parla a noi, di noi, del nostro tempo anche a sedici secoli di distanza. Questa escursione ci ha portati in molte direzioni, e molto ci sarebbe ancora da esplorare. Tuttavia, adesso siamo a luglio, camminare con questo caldo diventa faticoso! E allora è meglio fermarsi con l’estate, usando invece questo tempo di maggiore libertà per tradurre all’atto pratico le nostre migliori intenzioni.

“Lodatelo con la vita”, passare all’azione

Ogni azione – tanto più quella cristiana – non nasce semplicemente da un calcolo, ma da un intreccio di elementi meno prevedibili: un desiderio che affiora, un’intuizione che irrompe, un’impressione che smuove. Anche le scelte più ponderate, in fondo, iniziano da qualcosa che le precede, da un momento di ispirazione, da una ferita o da un fascino improvviso. C’è sempre, all’origine dell’agire, una scintilla che non si programma: un punto in cui la volontà, il sentimento e la realtà si toccano. Mi fa pensare a una distinzione ben nota in economia comportamentale: quella tra acquisti impulsivi e acquisti meditati. I primi sono guidati da una reazione emotiva immediata; i secondi da una riflessione più lunga e razionale. A mio avviso però, se si osserva più da vicino, anche le decisioni apparentemente più razionali scaturiscono sempre da un momento singolare: uno stimolo, un incontro, una parola che termina bruscamente il tempo della considerazione e innesca la scelta. E questo è dovuto, credo, al nostro istinto evolutivo, secondo il quale siamo molto più capaci di reagire agli avvenimenti improvvisi piuttosto che ponderare con calma e fino in fondo una decisione. Perciò l’azione, come ogni acquisto umano, non è mai del tutto lineare, ma comporta sempre un margine di rischio, un elemento di salto. Sant’Agostino lo sapeva bene. Nel celebre episodio del “tolle lege” narrato nelle Confessiones (VIII,12), la sua conversione non è frutto di un piano ben strutturato, ma dell’impatto improvviso: “Prendi e leggi”. Un impulso, un segno, un frammento minimo della realtà che provoca in lui una svolta definitiva. Agostino rifletteva da tempo, ma la decisione è figlia di un attimo. Anche per noi, il treno del Signore non si pianifica. Passa, e quando passa bisogna esser pronti, chi fa troppi calcoli lo perde. In questo senso, la vigilanza è più cristiana della programmazione. È più saggio chi allena l’occhio a riconoscere l’occasione del bene, piuttosto che chi stila un piano perfetto, ammesso che quest’ultimo possa mai esistere. Come ammonisce il Vangelo: «State pronti, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13). Ecco allora il punto: l’occasione del bene non è uno spazio. È un istante, va colto senza necessariamente iniziare con un obiettivo preciso: non sempre ne abbiamo la forza, e talvolta le condizioni esterne lo impediscono. Ma possiamo – e dobbiamo – rimanere predisposti, interiormente svegli, non addormentati sulle nostre paure o abitudini.  

Newton e Kierkegaard, ‘uomini d’azione’  

Persino la fisica ha delle buone capacità filosofiche per quanto riguarda l’azione. Famosamente, il secondo principio della dinamica di Newton recita: “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. Questa legge fisica, descrivendo l’equilibrio tra forze, esplicita formalmente il fatto che nessun corpo è isolato, ogni evento ha avuto una causa, e avrà poi una ripercussione. Oltre ad essere una regola cosmica, è facile vedere come questa verità valga nei rapporti fra persone, dove i gesti e le parole dialogano avanti e indietro e ad un buon gesto ne succede un’ altro. Come scrive Agostino nel De Civitate Dei (X,6): «Non ci è dato vivere per noi stessi: ogni anima è fatta per essere riflesso e causa, specchio e fonte». Ne “La malattia mortale”, Kierkegaard ha descritto con una chiarezza impietosa l’angoscia dell’uomo moderno di fronte alla decisione. L’angoscia, dice, è la “vertigine della libertà”: sapere di poter scegliere, ma non sapere che cosa scegliere. E tuttavia, la scelta non può essere evitata. L’indecisione è già una decisione, spesso la più dannosa. Ancor prima, in “Enten – Eller” (“Aut-Aut”), scrive: «Il momento della scelta è il momento in cui l’individuo diventa se stesso». E ciò non vale solo per le grandi scelte esistenziali, ma per quelle quotidiane: accogliere o respingere, parlare o tacere, servire o ignorare. In ogni gesto, si gioca la verità della nostra fede. Ma a differenza di Kierkegaard, che spesso resta nell’angoscia della scelta, il cristiano ha un riferimento ulteriore: la volontà di Dio. Non siamo lasciati a noi stessi. Come dice il Salmo: «Affida al Signore la tua via, confida in lui: compirà la sua opera» (Sal 37,5). Affrontare la vita di famiglia, la parrocchia, la città, lo Stato, il mondo con questo spirito significa che avremo sempre la possibilità di comportarci correttamente e trovare la dimensione più adatta per agire.

In conclusione   

Scrivere questi testi è stato un esercizio molto gratificante. Matteo per “Il nostro Giubileo” ed io per i commenti a S. Agostino, ringraziamo insieme don Luciano per averci invitati a scrivere sul foglietto parrocchiale. Grazie alla sua fiducia abbiamo potuto rispolverare vecchie letture e farne di nuove per poter preparare al meglio questi inserti. Un ringraziamento sincero a Bertossi Ameris e a Giulio Macola, che si sono adoperati ogni settimana per l’impaginazione e la stampa di questo foglietto, siamo grati per la loro pazienza. Infine, un ringraziamento ai numerosi Lettore, nella speranza che, scorrendo lungo queste righe, sia capitato loro di incontrare qualcosa di interessante.

Francesco Palazzolo

“Da cuore a cuore”

“Non tutti voi siete colonne, ma tutti siete pietre vive” – Sermo 336, 2

Possiamo immaginare che il rapporto di sant’Agostino con i suoi fedeli della diocesi di Ippona sia stato intenso e profondo, benché la storiografia ci dica poco a riguardo. Intuiamo queste premure dai numerosi consigli, appelli ed esortazioni che rivolge al popolo nei suoi testi. La sua attesa nei confronti dei laici non fu mai quella di spettatori passivi, semplici destinatari di insegnamenti, ma di membri attivi, pietre vive – per usare le sue stesse parole – chiamati a costituire e a sorreggere l’edificio della Chiesa, sia spirituale sia concreto nel mondo. Agostino aveva la tendenza ad essere molto rigoroso nel definire gerarchie, e il suo tempo esigeva questa chiarezza. Abbiamo visto quali posti e ruoli assegnava al ministero ordinato (quello dei vescovi e dei sacerdoti) che, come dice, compone le “colonne” della Chiesa. Resta da capire dove ci collochiamo noi, i laici, cristiani battezzati che partecipano alla vita della comunità ecclesiale in modo vivo, concreto e sostanziale. È importante, dunque, soffermarsi sulla figura del laico in Agostino e sulla sua partecipazione alla vita della Chiesa, soprattutto attraverso i sacramenti, ma anche mediante la testimonianza quotidiana, il servizio e la preghiera. La vita cristiana non si riduce infatti a una frequentazione passiva della liturgia e all’ascolto della Parola; è necessario che sia mattone, “pietra viva” che a seconda della sua forma è chiamata a collocarsi in un determinato posto, nel costituire l’edificio della Chiesa. Siamo quindi pietre, non elementi decorativi superficiali o accessori: siamo parte della muratura, partecipiamo alla solidità e alla bellezza monumentale.

Il laicato nel tempo

In una società cristiana, come quella del IV secolo, dove i confini tra sacro e profano si intrecciavano spesso con sfumature complesse, Agostino propone una visione radicale della santità quotidiana, quella santità che deve abitare ogni casa, ogni famiglia, ogni ambiente di lavoro o di incontro sociale. I laici non sono relegati a un ruolo marginale, ma sono chiamati a essere testimoni costanti di Cristo nel mondo: “Quando siete nelle vostre case, vi esorto a essere testimoni di Cristo verso i vostri familiari” (Sermo 94, 2). L’invito ad essere testimoni di Cristo nei propri ambienti, si traduce in una vocazione alta e impegnativa che si somma alla pratica religiosa e si fa incarnazione di una spiritualità viva e operosa. Nel corso dei secoli, questa idea ha trovato più conferme e si è sviluppata: il Concilio Vaticano II, riprendendo la tradizione patristica, ha rilanciato la vocazione e la missione del laicato, sottolineando la chiamata a collaborare con il ministero ordinato per la costruzione del Regno. Ma già Agostino aveva colto la natura missionaria e sacramentale della partecipazione dei fedeli laici, distinguendola dalla semplice appartenenza formale.

La vocazione dei laici

San Paolo, ricordato con frequenza da Agostino, definisce i credenti “templi dello Spirito Santo” (1 Cor 6,19), affermando così la sacralità della loro esistenza quotidiana, non confinata al sacro edificio, ma radicata nell’umano. Non dimentichiamo l’esempio di quella donna che ungeva i piedi di Gesù con unguento profumato, simbolo della partecipazione attiva nella lode e nel sacrificio; o del giovane ricco, chiamato esplicitamente a donare tutto e seguire Cristo. Come affermava il teologo Romano Guardini, “La Chiesa è prima di tutto la comunità dei fedeli, e questa comunità vive e si esprime nella corresponsabilità di tutti i suoi membri.” E ancora, come sottolineava il cardinale Joseph Ratzinger, “Il laicato ha una missione propria, non derivata ma primaria, che è quella di portare il Vangelo in tutti gli ambiti della vita umana.” I laici sono chiamati al servizio nella carità, nel sostegno ai poveri e ai malati, nell’impegno per la giustizia e la pace, nella cura della liturgia e nella testimonianza pubblica della fede. Anche la preghiera e la catechesi, sebbene spesso meno visibili, sono campi in cui la loro presenza è indispensabile. Agostino, nelle sue lettere e nei suoi sermoni, esorta continuamente i fedeli a non ritirarsi in un anonimato passivo, la Chiesa è un organismo vivente, e come tale ha bisogno non solo di colonne forti, ma di ogni pietra viva che contribuisce alla sua crescita, alla sua bellezza, alla sua santità.

Francesco Palazzolo

“DA CUORE A CUORE”

“Guai a me se non predicassi il Vangelo! Poiché mi è stata affidata una dispensazione.”

Confessioni, XIII, 9, 10

L’apostolo Paolo scrive con una franchezza: “Guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ne ho ricompensa; se invece non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato” (1Cor 9,16-17). Il termine greco che traduce “incarico” è oikonomía, da cui derivano “economia” e “dispensazione”. È il compito di chi amministra, di chi distribuisce secondo un disegno non suo. Sant’Agostino, commentando questi versetti, parla della dispensatio verbi – la dispensazione della Parola – come di una missione che grava su chi la riceve. Si parla, cioè, del sacerdote, che nella visione biblica e patristica, non è un iniziatore, ma un servitore. È, per usare l’immagine di Agostino, uno che “dispensa” il pane di vita, che non è suo, ma di Dio. Dice il Santo: “Non siamo pastori vostri come padroni, ma come servi” (Serm. 46,3).

L’immagine è quella “dell’economo evangelico’”, descritto da Gesù nel Vangelo: “Chi è dunque l’amministratore fedele e saggio, che il padrone metterà a capo della sua servitù per distribuire a tempo debito la razione di cibo?” (Lc 12,42). È quindi una missione: “Andate, dunque, e fate discepoli tutti i popoli… insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). Il peso del ministero è tutto il contrario di una carriera; San Gregorio Magno, parlando del vescovo, diceva: “Ogni giorno cado sotto il peso dell’ufficio esteriore, mentre anelo alla quiete della contemplazione” (Regula Pastoralis I,2). Pensiamo al pastore nel presepe, lui ha solitamente un unico fardello sulle spalle: una pecorella, mica poco! Condurre questa e tutte le altre pecore non lo investe solo di un’autorità, ma lo affida alla responsabilità di amare. Il pastore, se è tale, vive per le sue pecore. Non ha giorni liberi, non ha tempo per sé. È un uomo che “porta addosso l’odore delle sue pecore” (cf. Papa Francesco), e che impara ogni giorno a dare la vita, come il Maestro.

L’imposizione delle mani

Durante una ordinazione sacerdotale, vi è il gesto (che è realmente un sacramento) dell’imposizione delle mani da parte del Vescovo; questo segno riassume un intero percorso esistenziale. Nella nascita della loro vocazione, i sacerdoti hanno incontrato il Signore e sentito la sua parola: “Seguimi!“. Seguono quella voce inizialmente in modo un po’ malsicuro, volgendosi indietro e chiedendosi se quella sia veramente la loro strada. E in qualche punto del cammino hanno forse fatto l’esperienza di Pietro dopo la pesca miracolosa, sono cioè rimasti spaventati per la sua grandezza, la grandezza del compito, così da volersi tirare indietro: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5, 8). Ma poi Egli, con grande bontà, li ha presi per mano. Forse più di una volta ad ognuno di loro è accaduta la stessa cosa che a Pietro quando, camminando sulle acque incontro al Signore, improvvisamente si è accorto che l’acqua non lo sosteneva e che stava per affondare. E come Pietro avranno gridato: “Signore, salvami!” (Mt, 14, 30). Ma ancora il Signore ha donato loro la leggerezza che deriva dalla fede e che ci attrae verso l’alto, la fede in Gesù è il mezzo grazie al quale Egli prende nelle sue mani quelle dei sacerdoti, le stesse mani che, nella persona del vescovo, impone loro durante l’ordinazione.

Sacerdote d’oro, calice di legno

Durante i lavori del Concilio Vaticano II, emerse da una delle sessioni una massima folgorante: “Sacerdos sit aurum, calix lignum” – che il sacerdote sia d’oro, anche se il calice è di legno. Non è l’ornamento liturgico che va esaltato, non è la bellezza dell’argento o l’oro cesellato che dà dignità alla celebrazione. È l’anima del ministro: la trasparenza del suo cuore, la limpidezza della sua fede, la coerenza della sua vita. Anche se il calice è di legno, povero e nudo, se le mani che lo sollevano sono mani consacrate, allora quell’Eucaristia sarà “luce per il mondo”. In tempi che non sono mai semplici – perché, nella sua esperienza di venti secoli, non ci sono mai stati tempi semplici per la Chiesa – le comunità cristiane sono chiamate a stringersi attorno alla Parola di Dio e al proprio pastore. Il sacerdote non solo è funzionario del culto ed amministratore; questi sono ruoli che compongono una minima, seppur faticosa, parte della sua missione. Il sacerdote è propriamente un alter Christus, un uomo posto a ponte tra Dio e il popolo. È colui che rende presente, in parole e gesti, il Signore stesso. In questa luce, le nostre comunità – piccole porzioni del popolo santo di Dio – sono pellegrine, guidate da pastori che, riferimenti saldi, nella loro concreta e ordinaria presenza custodiscono quanto c’è di visibile ed invisibile nella Chiesa; il passato e il presente, affinché nulla di ciò che Dio ha seminato vada disperso nel vento del tempo. È un lavoro di traghettamento: nei passaggi di generazione, nel susseguirsi delle prove, nei cammini individuali di fede. Ed è giusto che si senta e si manifesti gratitudine verso i nostri sacerdoti, che riuniscono e reggono ogni parte del corpo della Chiesa attraverso il tempo.

Francesco Palazzolo

“Da cuore a cuore”

“Grande non è colui che comanda, ma colui che serve con amore.”

Sant’Agostino, In Iohannis Evangelium tractatus, 58, 2 “Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano”

Le parole di Sant’Agostino e riprese da papa Leone, che nel suo primo discorso da successore di Pietro ha voluto citare il santo di Ippona per delineare il senso più profondo del ministero episcopale: essere nella Chiesa ‘servi inutili’. Agostino distingue il “per voi” dal “con voi”: nel primo c’è l’ufficio, nel secondo la condizione comune a ogni battezzato. L’episcopato è dunque un servizio, è potere nella misura in cui è consegnato al bene dell’altro. Questo è un concetto importante che riguarda anche noi, popolo d Dio, che nella vita di tutti i giorni vediamo, siamo abituati a riconoscere il potere a partire da segni diversi: il possesso, il comando, l’autonomia dal vincolo, questa logica del servizio sembra non solo estranea, ma addirittura controproducente. Eppure, è la logica del Vangelo: lo ha detto Cristo in un forte momento di rivelazione: “Chi vuole essere grande tra voi, sarà vostro servitore” (Mc 10,43). La grandezza evangelica non si misura con il metro del dominio, ma con quello della dedizione. Sant’Agostino fu vescovo per trentacinque anni, nella turbolenta città di Ippona, nell’Africa romana assediata dai vandali e sfinita dalle eresie. Eppure, in mezzo a tanta instabilità, fu caposaldo per la sua comunità proprio attraverso il suo laborioso servizio, di cui oggi ancora godiamo nella forma dell’enorme opera di scritti fino a noi tramandati. Si immerse nelle esigenze della sua diocesi: rispondeva personalmente alle lettere dei fedeli, amministrava i beni della Chiesa con rigore, difendeva i poveri di fronte ai soprusi dei potenti. Era a turno giudice, maestro e pastore. E nello stesso momento combatteva in sé stesso la tentazione dell’orgoglio, che sempre minaccia chi ha una carica. Scrive infatti: “Non ci si deve gloriar del fatto di presiedere, ma del servire. […] È una carica, non un onore” (Sermo 340A). Le sue parole, così come il suo personale esempio, oggi come allora interpella ogni uomo: il potere che ci è affidato – anche quello piccolo, familiare, culturale, amministrativo – è giusto solo se è vissuto come servizio.

Il beato Bertrando

Il 6 giugno si celebrava la memoria del Beato Bertrando di San Genesio, un altro esempio di vita spesa nella logica del servizio. Fu patriarca di Aquileia dal 1334 al 1350; nato in Francia, a Saint-Geniès, nel 1260 (?), proveniva da una famiglia nobile e ricevette una raffinata formazione giuridica a Tolosa. La sua successione di incarichi fu rapida: fu chiamato dal papa a Roma, poi inviato come vescovo a Embrun e infine nominato patriarca. Aveva tutte le qualità del grande amministratore: intelligenza giuridica, senso pratico, capacità strategica. Ma aveva soprattutto un cuore aperto al Vangelo. Giunto in Friuli, trovò un territorio frantumato, segnato da lotte tra nobili, saccheggi, vendette incrociate. La Chiesa stessa era spesso implicata nei giochi di potere. Bertrando, con lucidità e decisione, iniziò una profonda opera di riforma: promosse la moralità del clero, ridusse i privilegi corrotti, restaurò la disciplina. Fu anche un uomo d’armi, com’era normale al tempo: costruì fortificazioni, organizzò difese contro le incursioni esterne con l’intento di proteggere la popolazione e l’integrità del Patriarcato. E allo stesso tempo, fu un instancabile promotore di opere di carità: fondò nel 1347 l’Ospedale di Santa Maria della Misericordia, che sarebbe diventato il cuore della cura medica a Udine per secoli. In lui vivevano insieme la fermezza del legislatore e la tenerezza del pastore.

Un’eredità ancora viva

Il brusco termine del suo ministero avvenne il 6 giugno 1350. Quel giorno, Bertrando si stava recando a San Giorgio della Richinvelda, con lo scopo di mediare una pace tra famiglie nobili in guerra. Consapevole del pericolo e cosciente che i suoi tentativi di mettere ordine nel disordine del potere locale gli avevano creato nemici potenti, non si tirò indietro dal tentare di raggiungere la pace. Fu infine assassinato in un agguato, colpito a morte mentre cercava di porre fine a una faida. La sua morte fu, agli occhi del popolo friulano, il martirio di un giusto. E tale è stato riconosciuto dalla Chiesa, che ne ha proclamato il culto fin dai secoli successivi, fino alla beatificazione ufficiale avvenuta sotto Clemente XIII nel 1760. La sua tomba è nella cattedrale di Udine, che da secoli è luogo di sua rinnovata preghiera e memoria. Ogni anno, il 6 giugno, la città lo ricorda con solennità, celebrando la sua figura come modello di vescovo, politico e uomo santo. Tutt’oggi servirebbe da esempio agli ‘operatori di pace’, a cui insegnerebbe cosa significa davvero battersi per la pace. Il beato Bertrando, con la sua unione tra sapienza giuridica e zelo pastorale, tra capacità politica e umiltà spirituale, è oggi più che mai attuale. Il suo esempio può parlare ai laici impegnati nella società, ai pastori della Chiesa, ai giovani in ricerca. Il beato Bertrando ha vissuto per edificare la città di Dio nel cuore della terra friulana. Possiamo augurarci che, come l’arrivo di questo patriarca sia stato provvidenziale alla nostra comunità, anche il nostro tempo regali al mondo moderno dei governanti. 

Francesco Palazzolo

“Cammina, uomo, e camminando ama; perché amando corri, e corri per amare. Qui è la fatica, là è il riposo, ma cammina senza pigrizia, perché non si raffreddi il tuo amore.”

(Sant’Agostino, Sermo 169, 18)

Domenica scorsa si è tenuto il pellegrinaggio al Santuario di Sant’Antonio. Il cammino votivo ricorda a tutti che, poiché la vita in sé non ammette stasi, a maggior ragione la vita cristiana è un progressivo avanzare nella fede. Sant’Agostino nel Sermo 169 invita ogni credente a non fermarsi mai nel suo cammino spirituale. Dice che l’uomo è fatto per tendere a qualcosa più grande di lui. Questa tensione è già scritta dentro di noi: siamo pellegrini, non residenti; viandanti, non padroni. Ma il tempo passa, e passando ci impone il movimento; qualche volta subiamo gli eventi, ci facciamo trascinare sperando che sia proprio il mutamento delle cose a risolvere certi problemi. Don Luciano ci ricorda un suo colloquio: “È inutile che tu cerchi il senso della vita solo camminando. Sarai deluso. Resterai sempre in compagnia dei tuoi limiti, perché li porti con te. Il senso della vita sta fuori di te, non è nell’orizzonte terreno, eppure lo si vive qui sulla terra” (Buenas Tardes, p. 89). Sant’Agostino andava avanti dicendo: “Chi corre bene non guarda dove mette i piedi, ma dove sta la meta” (Sermo 256, 5). Dove si va? Come ci si arriva? Ma verso dove si cammina? Per noi cristiani la risposta non è difficile; il problema, semmai, è che rispondere è la parte più semplice. In una predica sul Salmo 84, il vescovo d’Ippona afferma che l’uomo felice è colui che porta dentro di sé il desiderio di salire, di ascendere, non di restare fermo. Il cristiano deve mettere in conto le salite, le fatiche, gli sforzi, perché il cammino che conta non è quello orizzontale, ma quello verticale: si sale verso Dio, si cresce nella carità, si avanza nella fede. E la locomotiva? Noi con le nostre forze possiamo fare ben poco. Nella riflessione agostiniana ciò che ci muove è l’amore. Non basta quindi il camminare, non si arriverà molto lontano: bisogna sapere da cosa si è mossi e verso cosa ci si dirige.

Tutto l’uomo è mosso da ciò che ama

Agostino spiega che tutto l’uomo è mosso da ciò che ama.

Se ami il denaro, ti muoverai verso di esso; se ami l’onore, andrai in quella direzione; se ami Dio, il tuo cammino sarà verso di Lui. La direzione del nostro cammino è tracciata non tanto dai nostri pensieri o progetti, ma dai nostri affetti più profondi. Ecco perché, nel Sermo 169, Agostino non si limita a dire “cammina”, ma insiste: cammina amando, corri per amare, un circolo virtuoso che alimenta l’intensità interiore. Un pericolo serio, ci ricorda Agostino, è quello di smettere di camminare. Non perché ci opponiamo attivamente a Dio, ma perché ci raffreddiamo, ci adagiamo, diventiamo tiepidi. L’accidia – questa tristezza spirituale che ci fa perdere gusto per le cose di Dio – è uno dei nemici più subdoli. Non ci ferma subito: ci rallenta, ci appesantisce, ci fa sedere ai bordi della strada. Agostino ci ammonisce: attenzione a non scivolare dal riposo all’arresto definitivo. Così come il pellegrinaggio di domenica scorsa è stato un evento comunitario, ci conforta sapere che cammino cristiano non è mai solo individuale. Agostino ha una profonda visione ecclesiale: siamo tutti membra di un solo corpo, e camminiamo insieme. Non si cresce da soli, non si arriva a Dio da isolati. La Chiesa è il popolo in cammino, è la carovana dei pellegrini che avanzano sostenendosi a vicenda. Quando uno cade, l’altro lo rialza e se uno si smarrisce, l’altro lo richiama. Per Agostino, la vita cristiana è una continua ascesa, una lotta contro la legge del minimo sforzo. Non basta dire “sto bene così”, non basta mantenere una abitudine religiosa o evitare i grandi peccati. Bisogna crescere, avanzare, salire, perché chi smette di salire smette anche di vivere. In questo, Agostino è maestro di realismo spirituale: ci invita a guardare in faccia la nostra condizione, a riconoscere la necessità del progresso, a non illuderci di poter restare fermi.

Petrarca e l’ascesa al Monte Ventoso

Se vogliamo trovare nella letteratura una eco quasi perfetto della visione agostiniana del cammino, non possiamo non guardare a Francesco Petrarca e alla sua celebre lettera Ascesa al Monte Ventoso (Epistolae familiares IV,1), scritta nel 1336 e indirizzata a Dionigi di Borgo San Sepolcro. Petrarca racconta un’esperienza reale: la scalata, insieme al fratello, del monte Ventoso, in Provenza. Ma subito chiarisce al lettore che questa scalata è una metafora della sua vita interiore. Giunto in cima, contempla il panorama e, preso dall’ispirazione, apre a caso il libro delle Confessioni di Agostino, trovando un passo che gli parla direttamente: “E gli uomini vanno a contemplare le cime dei monti, le grandi onde del mare, il vasto corso dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso delle stelle, e trascurano se stessi.” (Confessiones, X, 8) Questo momento è per Petrarca uno spartiacque: si accorge che, fino a quel momento, ha guardato più fuori di sé che dentro di sé; ha cercato la bellezza, la gloria, l’elevazione, ma non ha ancora compiuto il cammino più difficile, quello dell’anima. L’ascesa al Monte Ventoso diventa quindi figura dell’ascesa spirituale. La fatica fisica, i sentieri tortuosi, i momenti di scoraggiamento, i ripensamenti lungo la strada, tutto questo è immagine della sua vita interiore. Lui stesso racconta che, più volte durante la scalata, aveva scelto il sentiero più facile e largo, salvo poi accorgersi che lo portava fuori strada. Questo dettaglio, apparentemente banale, è una allegoria morale: chi cerca la via più comoda finisce per allontanarsi dalla meta. Il paragone con Agostino non è casuale. Petrarca legge Agostino non solo come un padre della Chiesa, ma come un maestro di vita, un compagno di cammino. Le Confessioni diventano per lui lo specchio in cui guardarsi, vi si appoggia per leggere la propria esperienza. Ecco perché la scalata fisica culmina in un momento di introspezione: Petrarca comprende che la vera altezza non è quella dei monti, ma quella del cuore elevato a Dio. Scrive, infatti, alla fine della lettera: “Allora, pieno di stupore, mi fermai. Chiusi il libro, sdegnoso ormai delle cose terrene, e mi rivolsi a me stesso. Da quel giorno in poi, nessuno mi sentì più parlare di montagne.” Non è che Petrarca faccia una battuta, o rinneghi la bellezza della natura; capisce che Le tante montagne che aveva sognato di scalare, le tante ambizioni della vita, viste come cime da doppiare, ora contano poco. Come per Agostino, il cuore inquieto non trova pace nell’altezza del mondo, ma solo nell’altezza di Dio.  

Francesco Palazzolo

“DA CUORE A CUORE”

“La forza dell’abitudine mi trascinava con sé, e mi diceva: ‘Pensi forse di potermi abbandonare?’”

(Sant’Agostino, Confessioni, VIII, 5, 10)

Nella vicenda umana della conversione di sant’Agostino si cela un dramma interiore di straordinaria intensità, una lotta minuziosamente descritta. Come ha ricordato Papa Giovanni Paolo I nella sua Udienza Generale del 13 settembre 1978, Agostino stesso racconta il suo cammino di fede come un viaggio tormentato, quasi un convulso agitarsi dell’anima: “Di qua, Dio che lo chiama e insiste, e di là le antiche abitudini, “vecchie amiche – scrive lui – e mi tiravano dolcemente per il mio vestito di carne e mi dicevano: ‘Agostino, come?!, tu ci abbandoni? Guarda che tu non potrai più far questo, non potrai più far quell’altro e per sempre!’”. Questo contrasto tra l’affermarsi della vocazione e il peso dell’abitudine è emblematico di quell’“abitudo” che troppo tardi si riconosce dannosa, che imprigiona con la sua forza apparentemente lieve. Giovanni Paolo I prosegue con un’immagine familiare e semplice, ma di profonda efficacia pedagogica: “Mi trovavo – dice – nello stato di uno che è a letto, al mattino”. Gli dicono: ‘Fuori, Agostino, alzati!’. Lui invece, diceva: ‘Sì, ma più tardi, ancora un pochino!’. “Finalmente il Signore mi ha dato uno strattone, sono andato fuori”. Ecco, non bisogna dire: Sì, ma; sì, ma più tardi. Bisogna dire: Signore, sì! Subito! Questa è la fede. Rispondere con generosità al Signore. Ma chi è che dice questo sì? Chi è umile e si fida di Dio completamente!”.

Le catene invisibili

Nel mondo moderno abbiamo affinato le tecniche per spezzare le dipendenze fisiche, abbiamo nomi e trattamenti per ogni patologia del desiderio. Ma conosciamo meno le abitudini morali, quelle che non hanno sintomi esteriori. Viviamo dentro abitudini di pensiero, abitudini di giudizio, abitudini di pigrizia spirituale. Ci abituiamo a parlare male, a pensare il peggio, ad aspettarci poco dagli altri e da Dio. Queste predisposizioni sono dei paraocchi, o peggio, delle pesanti catene. Dickens, nel Canto di Natale, condensa: “Le catene dell’abitudine sono troppo leggere per essere sentite, finché non diventano troppo pesanti per essere spezzate.” Una verità che Agostino avrebbe sottoscritto parola per parola. Le abitudini iniziano come scelte volontarie, poi diventano automatismi e infine si fanno identità. Non si sa più distinguere ciò che si è scelto da ciò che si è semplicemente ereditato da se stessi. È il punto in cui il male non viene più percepito come tale, ma come inevitabile. Il risveglio dell’anima – Canto di Natale di Dickens Nel Canto di Natale di Charles Dickens, l’avaro Scrooge è un uomo prigioniero non del male, ma dell’abitudine al proprio egoismo. Tutta la sua vita si è costruita sull’accumulo, sul controllo, sull’efficienza arida. Talmente è trincerato in questo suo comportamento che non è bastata la vista di uno spirito, ne sono serviti quattro!

La sua conversione, come quella di Agostino, non è istantanea. È preparata da un processo e tra tutte le apparizioni, quella più incisiva non è Marley, il Passato o il Presente, ma il Futuro. Lo Spirito del futuro non parla, non tenta di convincerlo ma gli mostra come sarà l’avvenire. E in quella muta visione, Scrooge si vede defunto, dimenticato, deriso. Nessuno lo compiange. Gli oggetti della sua casa sono venduti per pochi spiccioli da domestici senza nome; è il volto più duro dell’indifferenza. E lì, in quel silenzio, l’uomo sente per la prima volta la voce della coscienza. Dickens scrive con precisione: “L’uomo a cui apparteneva quel letto non era stato amato in vita, e non sarebbe stato rimpianto in morte.” Scrooge trema. E per la prima volta chiede: “Sono queste le ombre di ciò che accadrà, o solo di ciò che può accadere?”, ci fa un pensierino! Sa che quel futuro è una possibilità e nasce in lui l’idea di poter evitare quell’esito. E grida, come Agostino: “Voglio essere diverso!” La grazia, nel linguaggio di Dickens, passa per l’immaginazione, ma il miracolo non è minore: l’uomo si sveglia nuovo.

Le manifestazioni concrete

Ciò che rende potente questa scena non è il cambiamento in sé, ma la conversione delle abitudini. Scrooge non diventa un santo astratto. Si alza al mattino e inizia a vivere diversamente. Inizia a fare ciò che non aveva mai fatto: ascolta, dona, si lascia toccare. La sua redenzione non è uno stato d’animo, ma una serie di nuovi gesti. L’abitudine al possesso viene rotta dall’abitudine alla generosità. Scrooge non è un uomo redento perché si sente meglio: lo è perché inizia ad agire in modo nuovo. Il vero miracolo è questo: che l’anima si lasci plasmare da nuove scelte, e che queste, ripetute, diventino nuove abitudini. Perché l’uomo non può vivere senza abitudini. Ma può scegliere quali coltivare. Ecco perché la redenzione cristiana è un cammino. Un’aggiunta quotidiana di bene. La tradizione monastica ha sempre saputo che la vera libertà non è fare ogni giorno qualcosa di diverso, ma imparare a fare ogni giorno lo stesso bene con fedeltà nuova. Agostino comprese che l’abitudine non si può lasciare se non con uno strappo. E che quello strappo, per non lacerare l’anima, ha bisogno di un’altra forza: la grazia di Dio. Non si tratta di sforzarsi di essere migliori. Si tratta di lasciarsi riplasmare da Colui che ha fatto nuove tutte le cose.  

Francesco Palazzolo

“Viviamo bene, e i tempi saranno buoni; noi siamo i tempi”

(Sant’Agostino, Discorso 311)

È una frase tratta dal Discorso 311 di sant’Agostino, uno degli autori che più profondamente hanno formato l’intelligenza e la spiritualità del nuovo vescovo di Roma. La citazione, usata nella udienza ai giornalisti lunedì scorso, non è stata un semplice omaggio colto, ma la manifestazione iniziale di una linea di pensiero che sarà verosimilmente centrale nel suo magistero. È stato provvidenziale l’aver qui dedicato, negli ultimi mesi, degli approfondimenti sul pensiero agostiniano. Essi sono stati, senza volerlo, una preparazione a meglio accogliere il pontificato nascente. Le parole di Agostino, già di per sé cariche di forza teologica e antropologica, assumono ora anche il valore di una sintonia con ciò che il nuovo papa si appresta a trasmettere con i suoi gesti e le sue scelte. Vale la pena dunque commentare questa massima antica quale anche strumento per entrare, con maggiore consapevolezza, nella visione cristiana del tempo e della responsabilità. Vivere bene, dice Agostino, non è uno sforzo privato o un affare interiore. È un modo di abitare il tempo, di attraversarlo lasciando in esso impronte di giustizia, di misericordia, di sapienza. E in questo senso, i tempi non sono entità autonome, quasi forze cieche della storia, ma specchi di ciò che gli uomini vi proiettano. La sfiducia che spesso circonda il nostro sguardo – verso la politica, la tecnologia, etc. – nasce da questa tentazione: credere che i tempi siano un destino e non una responsabilità.

Feynman e il rischio della conoscenza senza giudizio Un’applicazione particolarmente feconda della distinzione tra “vivere bene” e il mero “funzionare bene” si trova in un ambito che sembra, a prima vista, neutro rispetto alle valutazioni morali: la scienza. Eppure, proprio qui la riflessione è decisiva. Uno degli scienziati che meglio ha chiarito la posta in gioco è Richard Feynman, fisico teorico statunitense e premio Nobel per la fisica nel 1965. In più occasioni – a partire dalle sue lezioni universitarie (“Il Senso delle Cose”) fino ai suoi interventi pubblici dopo la guerra – Feynman ha insistito su una differenza spesso trascurata ma essenziale: quella tra scienza e tecnica. Per lui, scienza è un metodo di conoscenza. È fondata sull’osservazione sperimentale, sull’ipotesi verificabile, sulla ripetibilità. Essa mira alla comprensione delle leggi che regolano la natura, in una prospettiva aperta, autocritica, spesso provvisoria. La tecnica, al contrario, è l’applicazione della conoscenza scientifica per ottenere risultati pratici: costruire, modificare, intervenire. La distinzione non è solo formale. Per Feynman, ciò che la scienza può dire è “come funziona il mondo”; la tecnica risponde invece alla domanda: “come possiamo usare ciò che abbiamo capito”. Il problema, osservava, emerge quando si confondono questi due livelli: quando si crede che comprendere come fare qualcosa coincida con sapere se sia giusto farla. Feynman lavorò al Progetto Manhattan, partecipando allo sviluppo delle armi nucleari, e nel secondo dopoguerra riconobbe che la conoscenza acquisita non implicava, di per sé, alcuna direzione etica. La fisica nucleare aveva raggiunto un punto di maturità tale da permettere la fissione controllata, ma la scelta di utilizzare tale processo per fini militari fu di natura politica, non scientifica. Questo scarto tra conoscenza e responsabilità si è ampliato nel tempo. La tecnica, diventata autonoma rispetto alla scienza e persino rispetto all’etica, tende oggi a generare un’accelerazione che talvolta precede la possibilità di valutarne criticamente le implicazioni. Biotecnologie, intelligenza artificiale, neuroenhancement, manipolazione genetica: tutti ambiti in cui la domanda “possiamo farlo?” ha bisogno di essere affiancata – e talora arginata – dalla domanda più fondamentale: “è bene farlo?”. In questo contesto, la citazione agostiniana assume una portata epistemologica (cioè delle vie del conoscere): “Viviamo bene, e i tempi saranno buoni; noi siamo i tempi.” Il sapere, in sé, non genera tempi buoni. Può essere strumento di bene o di dominio, di progresso o di disumanizzazione. Sono gli uomini che ne dispongono a renderlo fruttuoso o distruttivo. In un sistema educativo, questa consapevolez-za implica che la formazione scientifica (specialmente ai livelli accademici) non può essere dissociata dalla formazione etica. Un curriculum che trasmetta solo la logica interna delle discipline, senza collocarle in un quadro di senso più ampio, rischia di generare competenze operative prive di orientamento. Feynman non era un pensatore morale in senso stretto. Ma la sua insistenza sul dubbio metodico, sulla trasparenza intellettuale e sul dovere di non auto-ingannarsi è, in effetti, un’etica implicita. La scienza diventa un luogo di verità solo quando è esercitata con integrità. L’uomo tecnico, diceva, rischia di ingannarsi più facilmente dell’uomo ignorante, perché dispone di strumenti più potenti per auto-confermare le proprie ipotesi. Per questo, la responsabilità dell’uomo formato scientificamente è maggiore: potere senza discernimento non rende i tempi buoni, li espone a squilibri più raffinati e meno visibili.

Non esistono “tempi buoni” senza uomini giusti Sant’Agostino, nella sua Città di Dio, osservava che ciò che distingue la città degli uomini da quella di Dio non sono i beni esteriori, ma l’amore che le muove. Dove l’amore è ordinato – verso Dio, verso l’altro, verso la verità – il tempo si fa propizio. Dove invece domina l’amor sui, il culto di sé, anche le condizioni migliori producono miseria. Ecco perché la frase del Papa, riprendendo Agostino, non è solo una citazione felice. È un manifesto. È un appello alla responsabilità personale, all’educazione profonda, alla maturazione interiore. È anche una correzione gentile al fatalismo del nostro tempo, alla tendenza a delegare al potere, alla tecnica, al futuro ciò che solo ciascuno può scegliere: vivere bene. In fondo, «noi siamo i tempi» significa anche questo: nessuna stagione della storia è perduta, se qualcuno decide di viverla con giustizia. E nessuna riforma della società sarà mai stabile, se non affonda nella riforma delle coscienze, delle abitudini. È da qui che si comincia, individualmente, si comprende perché, anche nei momenti più oscuri, la speranza cristiana non è evasione, ma radicamento. Perché essa si alimenta non dei segni dei tempi, ma della possibilità – sempre aperta – di vivere bene.                                                              

Francesco Palazzolo